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SHOTS_05 – Enrico Bisi

un intervista di Davies Zambotti

Come hai iniziato a fare cinema? Cosa ti ha stimolato ad intraprendere questa carriera?

Il mio percorso nasce sicuramente da spettatore. Ho studiato cinema prima di farlo, e agli inizi degli studi nemmeno avrei pensato di cimentarmi nella regia. Poi si è sviluppata la passione di voler creare qualcosa oltre allo studio, e così con un po’ di quelli che erano i miei compagni di università ho iniziato. Mi affascinava l’idea di poter creare delle immagini e creare un racconto attorno ad esse. Agli inizi, l’idea che il regista pensasse per immagini mi affascinava molto…

L’approccio al fare cinema per me ha voluto dire auto-produzione. Inizialmente è quasi impossibile trovare soldi esterni per finanziare i tuoi primi progetti. Oggi forse ci sono più strade, ma vent’anni fa era diverso. Quindi ti divincolavi tra soldi racimolati risparmiando e chiedendo favori a qualche amico o conoscente che potesse darti una mano. E poi si spedivano i vhs o i dvd ai festival, andando fisicamente in Posta.

Sul set hai più peso per te l’improvvisazione o la pianificazione?

Sono entrambe importanti. Senza una buona pianificazione è anche molto difficile improvvisare. Se sei convinto si quello che hai intesta e attorno a te è tutto ben organizzato, sarà anche più facile improvvisare. È importante in questo caso distinguere però tra fiction e documentario. Nel secondo caso secondo me l’improvvisazione è sempre necessaria perché stai raccontando qualcosa che non è completamente predefinito. Registri una fetta di esistente che può cambiare in qualsiasi momento, quindi devi essere pronto ad adattarti per cogliere qualsiasi cosa possa accadere. Pianificare bene, anche alla perfezione, non vuol dire essere rigidi. Penso che serva però a garantirti una certa tranquillità sul set.

Come ti comporti con le “regole” del linguaggio cinematografico? (inquadrature, campi, movimenti di macchina, ecc…)

Le regole, o meglio le convenzioni, sono importanti. Ma altrettanto importante è sapere che la storia del cinema ha avuto i suoi momenti d’oro proprio nel momento in cui qualcuno ha provato a sfidare questo sistema. Un conto è un errore tecnico, altro è decidere consciamente di scavalcare il campo. Mi piace accostare campi lunghi a inquadrature molto strette, anche se talvolta l’effetto è straniante. Ma più di tutto mi piace lavorare al montaggio. È dall’accostamento delle immagini che un film prende forma e valore per come lavoro io. È quello il momento in cui davvero creo il film. Prima preparo i pezzi del mosaico, poi però vivrà qualcosa solo quando li metterò insieme.

Che rapporto hai con la fotografia? E qual è lo scatto che per te rappresenta il cinema?

Ho sempre amato la fotografia, e oggi credo che se dovessi trovare un “genere” che mi appassiona ti direi la street photography. Lo scatto che rappresenta il cinema per me è una foto di Eve Arnold fatta durante le riprese di The Misfits di John Houston con Marilyn Monroe. The Misfits è un film maledetto, un film di fantasmi, di amore, morte, gioia e dolore. Marilyn è al centro dell’inquadratura, in mezzo busto, con un giubbotto di jeans. Le mani alla bocca e lo sguardo in basso, triste. A sinistra uno stativo con il microfono per la presa diretta e sullo sfondo il deserto del Nevada. Lì c’è tutto secondo me, per chi lo sa capire.

5 – Quanto la fotografia è importante nella tua narrazione?

La fotografia è importante, ma credo che debba sempre essere a servizio del film e della storia che stai raccontando. Oggi prevale un po’ “l’estetica da videoclip”, dove le facce e le luci sono sempre blu, verdi, rosse o immagini molto patinate. Un’estetica che si tende a far andar bene su qualsiasi tipo di film o di racconto. C’è quasi un rifiuto delle immagini un po’ sporche, forse anche a causa dell’alta definizione che è stata un po’ male interpretata.

A me piace molto, nei documentari, usare immagini rubate, magari non perfettamente “pulite” ma che siano in grado di restituire qualcosa di inaspettato allo spettatore.

Quali sono i tuoi punti di riferimento e ispirazione?

Questo è sempre molto difficile da dire. Non credo di avere dei veri e propri punti di riferimento, come magari avevo quando ero più giovane. Traggo ispirazione un po’ da tutto quello che mi trovo davanti. Che sia realtà o un film, una canzone o un graffito su un muro. Sono abbastanza libero da dogmi, mi piace ancora l’idea di provare a fare qualcosa di diverso, o almeno diverso per me, da quello che ho già fatto in passato. Se comunque dovessi dire chi è che mi ha ispirato davvero per fare i cinema sarei costretto a fare grandi nomi: da Scorsese a Cronenberg, da Lynch a Godard passando per Welles, Kubrick e Wilder. D’altronde credo sia giusto guardare i migliori, anche con la consapevolezza che quei livelli sono per pochi eletti…

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